lunedì 2 marzo 2020

Copa Libertadores 2020, historial Flamengo-Junior Barranquilla

di Vincenzo Paliotto
 Era un Flamengo ancora molto forte sulla carta, nonostante la dipartita verso il calcio italiano di Arthur Zico nell’estate del 1983. Ma proprio nel 1983, con Zico ancora in campo e  dopo poco tempo la scomparsa dell’allenatore Coutinho, colui che in qualche modo avrebbe voluto cambiare le abitudini di gioco dei brasiliani, il Flamengo vinse un nuovo titolo brasiliano, questa volta schiacciando in finale senza troppa storia il redivivo Santos, tornato molto tempo dopo l’addio di Pelè ad un appuntamento senza dubbio importante. Flamengo, passato nel frattempo sotto le cure di Carlos Alberto Torres, e Santos guadagnarono dunque un posto a testa per la Copa Libertadores del 1984, che i carioca giocarono con molte più ambizioni, peraltro infliggendo ancora due notevoli sconfitte ai santisti. le altre avversarie del girone brasiliano-colombiano erano l’America Calì, la squadra cara al narcotrafficante del Cartello cittadino Gilberto Orejuela Rodriguez, e lo Junior Barranquilla.
 Il Flamengo, che torna in campo per la prima volta dopo al conquista della Libertadores del 2019, riparte proprio dai colombiani dello Junior e quello del 1984 è l’unico precedente tra le due formazioni nel massimo torneo. In quella stagione la squadra flamenguista riportò al cospetto dei colombiani due vittorie nette. Il Flamengo vinse 2-1 a Barranquilla dinanzi a 45.000 spettatori, grazie al gol in apertura di Edmar, quindi il provvisorio pareggio di Barrios e quindi il gol decisivo nel finale di Tita, traslocato a Rio proveniente dal Gremio, dove aveva vinto un’altra Libertadores. Il protagonista finale fu però Ubaldo Matildo Fillo, arrivato a Rio dall’Argentinos Juniors, che nei minuti finali neutralizzò un penalty di Galvan. Fillo del resto in patria era specializzato, così come il suo grande rivale Hugo Gatti, a parare i calci di rigore. Nella gara successiva la Maracanà invece il Flamengo vinse per 3-1 e tutti e tre i gol portavano la firma di Edmar, talentuoso centravanti che i carioca avevano pescato nelle file del Cruzeiro in quella che sarebbe stata poi la sua unica stagione in maglia rossonera. Edmar fu l’eroe flamenguista in quello scorcio di stagione, prima di passare poi al Guaranì Campinas. Nell’esatte del 1988 sarebbe approdato addirittura in Italia nelle file del Pescara, dove avrebbe magicamente ritrovato altri suoi compagni del Flamengo come i titolati Junior e Tita.

 Il Flamengo del 1984 passò al girone di semifinale, ma non arrivò alla finale, fermato nello spareggio dal Gremio, che comunque abdicò al titolo continentale in favore dell’Independiente de Avellaneda.

mercoledì 12 febbraio 2020

Quando Erdogan era un calciatore

di Vincenzo Paliotto
RecepTayyipErdogan è dal 2014 il Presidente della Repubblica di Turchia in carica, dopo essere stato per tre mandati consecutivi anche il Primo Ministro del paese. E’ uno degli uomini più discussi e criticati degli equilibri politici ed economici dello scacchiere del Mediterraneo. Molti paesi hanno chiesto sanzioni a carico della Turchia e soprattutto di privarla di eventi dal punto di vista sportivo importanti, a cominciare dalla finale di Champions League in programma ad Istanbul il prossimo anno. L’aggressione ai curdi e l’attuazione di vere e proprie tecniche di sterminio praticate dall’esercito turco hanno suscitato rabbia ed in qualche caso reazione, ma la Turchia sembra non mollare, anzi gli stessi calciatori della nazionale di calcio hanno fatto gridare allo scandalo per il saluto militare da loro eseguito durante le partite. Qualcuno, come il mitico Hakan Sukur, ex tra le altre di Galatasaray, Inter e Torino, si è dissociato, entrando in rotta di collisione con lo stesso Erdogan ed il governo turco e di conseguenza quasi bandito dal sistema di comunicazione.
 Il calcio, del resto, gode di un’importanza vitale nel tessuto sociale turco e la stessa storia personale di Erdogan incrocia quella di un campo di calcio. Il Presidente turco vanta una vera e propria carriera agonistica, avendo militato nell’Erokspor, nel Camtli e quindi nello Iett Istanbul. Debuttò all’età di 15 anni nell’Erokspor, squadra del distretto della capitale di Kasimpasa nata nel 1959. Dai colori giallo e verdi è da sempre un tipico sodalizio sportivo, che lancia nell’orbita agonistica i giovani turchi. Erdogan in compagnia di NevruzSerif, ex-nazionale, è una delle glorie del club, mettendosi abbastanza presto in luce come attaccante dallo spiccato fiuto del gol. In verità tra l’orgoglio della madre, che accuratamente gli lavava e gli preparava gli indumenti di gioco, e la rabbia ed il risentimento del padre Ahmet, che lo avrebbero voluto unicamente proiettato verso gli studi. Ma l’attenzione di Erdogan verso il calcio era effettivamente alta, tanto che il giovane Recep riusciva a dividersi pur di giocare al pallone, tra gli studi all’Università di Marmara, lavori per contribuire alle spese della famiglia ed il campo di allenamento. Dopo un’altra proficua esperienza al Camtli, altra formazione di una divisione dilettantistica, nel 1975 l’Erdogan calciatore ha scaturito l’interessamento dell’Iett, la squadra dei trasporti della capitale, militante stabilmente nella terza divisione nazionale. Il suo reclutamento nell’organico della sua nuova squadra avvenne attraverso un’assunzione. Il 24 ottobre del 1975, infatti, Erdogan superò pienamente la prova di assunzione nella nuova società e diventa un dipendente ed un calciatore del club. Diventa subito un idolo dello Iett, che nel 1978 guidò a suon di gol alla vittoria nel I campionato amatoriale di Istanbul. Tuttavia, l’interesse nei suoi confronti era molto alto, tanto che pervenne una proposta di ingaggio da parte del Fenerbache. Soltanto l’opposizione strenua del padre fece tramontare definitivamente la trattativa. Mehmet Ali Gurses, l’allenatore della squadra, ne esaltava ampiamente le doti di attaccante. La sua permanenza in quella squadra si prolungò fino al 1981, tra diverse vittorie in campionato. Anche se era un calcio difficile e quasi eroico, con campi spelacchiati senza un filo d’erba e soprattutto esposto alle rudezze dei difensori turchi. Una volta in carriera venne pure espulso Erdogan, a causa di reiterate proteste nei confronti del direttore di gara di turco. Era d’altra parte dotato di un carattere deciso anche sui campi di calcio Erdogan, facendosi apprezzare quasi sempre in zona-gol.

 Il suo legame con il calcio non sarebbe, comunque mai svanito. Anche quando Erdogan sarebbe diventato un uomo politico a tutti gli effetti. Anzi il calcio continuò ad occupare un aspetto importante della sua vita, a cominciare dal Basaksehirspor, la squadra che personalmente segue e che ha portato ai vertici del calcio turco. Un rapporto difficile, però, da gestire, soprattutto al cospetto delle altre grandi del calcio nazionale. Gli ultras di Galatasaray, Fenerbahce e Besiktas si unirono in un fronte comune per riversarsi nelle strade di Istanbul e contraddire le direttive politiche di Erdogan. Ma anche questa è un’altra storia, una storia che la Turchia moderna fatica ad accantonare. 

giovedì 6 febbraio 2020

Prince Amoako, l'unico africano ad aver giocato una finale di Copa Libertadores




di Vincenzo Paliotto

 Quasi improbabile che giocatori e tecnici di altri continenti abbiano potuto far bene nella Copa Libertadores. Lo spagnolo Pablo Mari è stato il primo europeo a vincerla nel 2019 con la maglia del Flamengo. Invece un solo calciatore africano è riuscito quantomeno a giocare la finale della Copa più prestigiosa dell’America Latina. E’ la storia di Prince Koranteng Amoako, centravanti ghanese che si mise in luce alle Olimpiadi di Atlanta del 1996. Giocava con l’Asante Kotoko e le buone prestazioni  nella manifestazione a cinque cerchi lo portarono in Perù, alla corte dello Sporting Cristal a Lima. Il conjunto cervecero, nato nel 1954, giocò una straordinaria campagna in Libertadores agli ordini del tecnico Sergio Markarian e diventò la seconda squadra peruviana a giocare una finale dopo l’Universitario nel 1972. Era la squadra di Solano, Soto, del paraguayano Pedro Garay, di Julinho e dell’argentino Bonnet e quindi di Amoako.

 Negli ottavi lo Sporting Cristal con molta sorpresa superò il Velez Sarsfield con un gol in campo esterno a due minuti dal termine di Jorge Soto e nei quarti avrebbe sfidato sulle alture boliviane un agguerrito Bolivar, che tra i pali schierava un altro africano: Thomas N’Kono, ormai un po’ avanti con gli anni ma che spinse l’undici di La Paz veramente lontano nella Copa. In Bolivia i padroni di casa prevalsero per 2-1, ma a Lima lo Sporting operò un grande riscatto con i gol di Solano, Soto ed al 66’ di Amoako, che superò proprio N’Kono in un inedito duello africano in territorio sudamericano. In semifinale contro il Racing Club Avellaneda, maggiormente accreditato di raggiungere l’atto finale del torneo, venne messo in copertina dalla rivista Once alla guida di un’auto della polizia. El conductor recitava il prestigioso titolo ed Amoako divenne l’arma a sorpresa di quello Sporting Cristal. Giocò entrambe le partite il grane, dando molti grattacapi alla difesa della squadra di Alfio Basile. Un attaccante dal passo imprevedibile che poteva spostare gli equilibri di una partita e rendere vulnerabile anche le difese più munite del torneo. Lo Sporting Cristal ebbe ragione anche del Racing Club, che sognava una finale di Copa Libertadores a distanza di 30 anni esatti.

 Giocò titolare anche nella finale di ritorno a Belo Horizonte per essere rilevato da Carmona contro il Cruzeiro, ma la sua avventura con la maglia dei cervezeros durò lo spazio di 15 partite e 3 reti, prima di passare al Deportivo Municipal, sempre nella capitale andina. Questa volta in finale allo Sporting Cristal ed Amoako il miracolo non riuscì, ma quella doppia finale fu decisa in favore dei brasiliani da un solo gol, peraltro di Elivelton su topica di Baleiro.

mercoledì 29 gennaio 2020

Il miglior gol di Bochini, 10 anni prima di Maradona


di Vincenzo Paliotto
 Li evitò tutti o quasi in dribbling stretti e ficcanti, usando al meglio tutta l’arte pedatorio di cui era in possesso. Julio Ricardo Bochini segnò il gol della storia, che giusto dieci anni più tardi soltanto Diego Armando Maradona avrebbe perfettamente emulato. Era il 26 maggio del 1976 e al Doble Visera, casa dell’Independiente, i diablos rojos sfidavano nel girone di semifinale il Penarol, in uno dei grandi classici del Sud America. La sfida viveva di un equilibrio quasi eterno ed incontrovertibile. L’Independiente giocava tra la folla della sua gente, chiamato in causa a difendere il titolo continentale che nella stagione precedente aveva vinto ai danni del Sao Paulo. Bochini aveva debuttato con quella che sarebbe stata la squadra della sua vita nel 1972. Un esordio di fuoco tra le altre cose. Il 25 giugno del ’72 nella cancha del Monumental, tempio del River Plate, il Bocha scese in campo per rilevare Saggioratto ed al primo pallone giocabile eluse in dribbling Daniel Onega, colonna del River, che lo strattonò per la maglia. L’Independiente comunque perse di misura, ma quel giorno aveva scoperto un altro dei suoi incredibili campioni, forse il più dotato di sempre.
 Quelli del Penarol, però, lo attendevano con i loro tacchetti affilati e con le loro maniere rudi e spesso scomposte, tali da intimorire qualsiasi attaccanti. Bochini provò loro a stuzzicare nel corso della gara, ma i girasoli sembravano attentissimi senza concedere il minimo centimetro di spazio. All’altezza della metà campo dell’Independiente Bertolè si incaricò di andare a battere un fallo laterale, passando il pallone ad Asteggiano, che a sua volta lo cedette nei piedi sapienti di Bochini. Nessuno poteva avere in mente quali fossero le intenzioni del n. 10 in quel momento. Ma Bochini evitò subito in dribbling l’accorrente Gimenez e quindi si lanciò in velocità tra le strette maglie di Acosta e Pizzani, prima che Zoryes ed Olivera andassero a vuoto anche con il loro tentativo di opposizione. Bochini avanzava impietoso verso la porta avversaria, eludendo nuovamente l’intervento in tackle del redivivo e quindi superando anche Garisto. L’ultimo difensore rimasto nella sua scia era Gonzalez, anche superato in dribbling e quindi in diagonale dall’interno dell’area di rigore superò la resistenza dell’estremo difensore Corbo. Con quel gol storico ed eccezionale l’Independiente vinse quella partita e quella prodezza venne consegnata direttamente alla storia. Lo avrebbe imitato giusto dieci anni più tardi Maradona in Messico contro l’Inghilterra. Del resto Maradona riteneva Bochini il calciatore a cui si ispirava, il suo vero ispiratore dei suoi gesti tecnici.

 Non fu un caso, del resto, che Maradona ne pretese la convocazione per i Mondiali del 1986, seppur con un posto in panchina. El Bocha aveva avuto una carriera poco fortunata con la Selecciòn, ma Maradona gli consentì di diventare Campione del Mondo, quando Bochini scese in campo seppur per pochi minuti nella semifinale contro il Belgio. Un regalo che il maestro non avrebbe mai più dimenticato.

martedì 21 gennaio 2020

La libertà del gol di Viorel Nastase


di Vincenzo Paliotto
La conosceva in qualche modo la sua libertà Viorel Nastase. La assaporava ogni volta che scendeva sul terreno di gioco. I bene informati, del resto, affermavano che se non avesse avuto la passione sia per le donne che per le birre il suo nome sarebbe riecheggiato a lungo nella storia del calcio mondiale. Invece, soltanto in parte fu così. Era nato a Bucarest nel 1953 e di professione faceva l’attaccante con il fiuto del gol. Cominciò a 16 anni nel piccolo Progresul nella capitale rumena, ma ben presto nel 1971 divenne uno degli oggetti del desiderio di una delle squadre più potenti del paese: la Steaua, la squadra dei militari, con cui giocò fino al ’79, mettendo a segno soltanto in campionato ben 77 reti. Il suo approdo in nazionale fu precoce, ma alquanto breve. Dopo l’esordio nel 1971 contro l’Albania, vi ritornò soltanto una volta nel 1977 per poi uscirvi ancora una volta definitivamente. Raggiunse una popolarità enorme pari al suo talento nel momento in cui in Coppa delle Coppe con la sua Steaua eliminò nel 1971/72 il quotato e ricco Barcellona, che non aveva ancora vinto a livello continentale, ma era stato affidato alla guida tecnica di RinusMichels. Viorel Nastase nell’arco delle due partite inflisse ben 3 gol ai malcapitati catalani, condannandoli ad un’eliminazione storica ed inopinata. Eliminò il Barcellona da solo o quasi, mentre tra i pali Coman compieva miracoli, così come si esaltò il giovane Hajdu che lo rilevò nella ripresa per infortunio. Al primo turno la Steaua aveva eliminato a fatica i maltesi dell’Hibernians Paola, ma contro il Barcellona realizzarono l’impresa. Vittoria per 1-0 al Camp Nou, gol di Nastase al 12’, che trafisse Sadurni su assist dell’altro giovane AnghelIordanescu. Il risultato con effetti miracolosi si sarebbe ripetuto anche a Bucarest, nonostante il Barca fosse passato in vantaggio al 50’ con Asensi. Si pensava ad una quasi logica rimonta del Barcellona, ma lo stesso Nastase impattò dopo appena tre minuti ed egli stessi rifinì poi il punteggio con il gol del definitivo 2-1 al 60’. Nastase aveva appena 18 anni, la sua carriera stava esplodendo in maniera vigorosa.

 Dal 1979 in poi cominciò la sua fuga verso la libertà, di cui si sentiva privato in patria. In occasione di un’altra partita di Coppa delle Coppe giocata a Berna contro la Young Boys e pareggiata per 2-2 Nastase decise di scappare e di non far più ritorno in patria, divincolandosi dagli agenti della Securitate di Ceausescu. Si era così macchiato di altro tradimento o meglio defezione, qualcosa di imperdonabile nei paesi socialisti. A chi chiedeva di lui si diceva addirittura che fosse morto. Dopo un anno di stop imposto per squalifica dalla UEFA, fece riaffiorare nuovamente le sue tracce ed  andò a vestire la maglia del Monaco 1860, realizzando anche 15 gol in Bundesliga, tanti ma non sufficienti alla salvezza della formazione bavarese. Il suo stile di vita proprio in Baviera cominciò ad essere sregolato. Lo stile di vita occidentale lo stava lentamente divorando tra alcool, diverse amanti e la relazione con una bellissima assicuratrice tedesca che viveva in città. Nastase godeva sempre meno di quel guizzo che lo aveva reso un campione nel suo paese, ma nonostante tutto gli riservò fiducia il Catanzaro, dopo che in Italia avevano riaperto le frontiere. Lo pagarono 400 milioni di lire, ma dopo poche partite si fece male seriamente a Como sotto le cure difensive di Silvano Fontolan, proprio dopo aver segnato il suo primo gol italiano. I suoi gol furono rari, ma quasi permise al Catanzaro nel 1982 di raggiungere la finale di Coppa Italia, dopo che con un suo gol avevano espugnato il San Paolo di Napoli. Dall’81 all’84 in Italia collezionò 31 presenze con 3 reti, prima di partire per l’Austria in direzione Salisburgo. A soli 31 anni si ritirò dalle scene calcistiche e quasi da quelle della vita, travolto dall’alcol e dalla cleptomania. Un giorno si ritrovarono le sue tracce dalle parti di Bucarest, da dove era scappato e dove era ritornato per allenare una squadra minore.

martedì 7 gennaio 2020

Cruyff y Caszely, storia di un'amicizia

di Vincenzo Paliotto
 Provenivano da strade e percorsi diversi. Cruyff approdò nel campionato spagnolo in quanto all’Ajax una votazione della squadra lo aveva privato della fascia di capitano e quindi decise con l’aiuto del suocero Cor Coster, commerciante di diamanti e di calciatori, di trovare un ingaggio lauto a Barcellona, anche se il suo club era a sua volta in trattativa con il Real Madrid. In realtà mezza Europa avrebbe sostenuto qualsiasi sacrifico economico per avere alle proprie dipendenze uno come Cruyff. Caszely, invece, approdò in Spagna, in un primo momento al Levante, da tanti considerata più o meno la seconda squadra di Valencia, e poi a Barcellona sulla sponda dell’Espanol, come una scommessa o quasi da vincere. Le doti tecniche e realizzative del cileno erano note, ma tutte ancora da verificare nel calcio europeo. Nella sua militanza a Barcellona, oltretutto, Cruyff non era un calciatore con passaporto straniero come tanti altri. Non era un mercenario affidato al soldo di uno dei club più ricchi e vincenti del mondo e basta. La sua integrazione con il catalanismo fu reale e non soltanto di facciata, così come di conseguenza la sua ostilità nei confronti del franchismo, che in particolare aveva martoriato il popolo barcellonese, che era diventato ad un certo punto della sua vita anche il suo popolo. Il loro divenne un rapporto di amicizia vero, anche se i due calciatori non avevano mai avuto contatti in precedenza. Ma le prestazioni calcistiche e non solo di entrambi creavano fascino vicendevolmente. Dopo le sfortune in classifica con il piccolo Levante, Caszely approdò al ben più ambizioso Espanol, la squadra non minore, ma come dire meno vincente di Barcellona, ma comunque con un seguito importante di aficionados. Fu nella capitale catalana che Caszely e Cruyff strinsero un rapporto di amicizia significativo, appassionandosi l’uno all’altro del reciproco senso di rivoluzione. Disse Caszely: “Ogni tanto abbiamo giocato a tennis insieme ed una volta è venuto anche a trovarmi a casa. Bevemmo del caffè e chiacchierammo e mi ricordo che fumò quasi un intero pacchetto di sigarette Chesterfield. Ma la sua compagnia era bella e sapeva essere un amico”. Lo stesso quotidiano El Mundo Deportivo una domenica mattina di maggio, era precisamente il 14 maggio del 1978, dedicò una pagina alla visita di Caszely a Cruyff durante un allenamento del Barcellona, che si preparava per una tournèe negli Stati Uniti. Caszely visitò a Cruyff al campo di allenamento. Ma probabilmente dopo quella visita i due dovettero, per colpe non loro, perdersi un po’ di vista. In realtà Cruyff caldeggiò ai suoi vertici societari del Barca l’acquisto proprio di Caszely, che sarebbe stato un colpo vincente nell’attacco dei barcellonesi. Meler, che era il Presidente dell’Espanol, per una questione di orgoglio si oppose e dichiarò quasi pubblicamente che il cartellino di Caszely non lo avrebbe ceduto per nessuna cifra, neanche di quelle astronomiche che sapeva scucire il Barcellona. Insomma Caszely non era in vendita, soprattutto se a comprarlo era il Barcellona. Cruyff lo aveva visto giocare e condivideva una stima per lui insieme al tecnico del Barca Rinus Michels. Sarebbe stato un calciatore ideale per quel Barcellona già forte ed ambizioso, in un mosaico tecnico in cui i sudamericani spesso si esaltavano. Un calciatore estroso come terminale delle offensive dei blaugrana. Quel sogno quasi proibito di vederli giocare insieme così svanì, anche se a questa eventualità ci fu e c’era stata una eccezione e pure importante.
 Il 9 giugno del 1976, nel suo Camp Nou, Cruyff decise di scendere in campo, coinvolgendo anche il suo connazionale Johan Neeskens ed appena il suo amico Carlos Caszely, con addosso la maglia catalana in un inedito Selecciòn Catalunya-URSS. Una partita che poteva finalmente giocarsi, dopo la morte di Francisco Franco, che aveva opportunamente messo al bando quella selezione catalana. Un combinado (come amano dire gli spagnoli ed i sudamericani) di calciatori in prevalenza di Barca ed Espanyol formarono quella squadra, che scese in campo con: Mora; Ramos, Costas, Verdugo; Ortiz Aquino, Neeskens; Rexach, Solsona, Cruyff, Marcial e Caszely. Nella seconda frazione di gioco poi Fernández Amado entrò in luogo di Marcial al 70’ e quindi Cuesta proprio al posto di Cruyff. Finì 1-1 e segnò Neeskens per i catalani e giocò anche Carlos Caszely, in forza all’Espanyol, in quello che diventò un vero inno al comunismo e all’anti-franchismo in generale. Caszely, infatti, come sapevano tutti in Spagna era emigrato calcisticamente dal Cile in Spagna proprio per sfuggire in qualche modo alla caccia di Augusto Pinochet, dittatore militare e fascista. Ma il catalanismo di Cruyff era iniziato già da prima e, alla morte desiderata di Francisco Franco, Cruyff aveva indossato come fascia di capitano del Barcellona la senyera, simbolo del catalanismo, in una gara interna di campionato contro l’Athletic Bilbao il 1° marzo del 1976. Oltretutto lo stesso Cruyff battezzò suo figlio, nato proprio a Barcellona, con il nome di Jordi, che la legge spagnola proibiva al tempo, in quanto il figlio del campione olandese si sarebbe dovuto chiamare Jorge Cruyff e non con il catalanizzato Jordi, non consentito dalla legge franchista. Ma il N. 14 più famoso ed ambito del mondo lo fece proprio per dare un senso di libertà e di vicinanza all’identità catalana. Il giornalista del New York Times, presente alla memorabile manita del Barca in casa del Real Madrid nel ’74, disse che aveva fatto più Cruyff per il catalanismo in un solo pomeriggio di calcio che tanti uomini della politica in tanti loro discorsi ed azioni. Il sogno di vedere giocare Cruyff e Caszely insieme durò lo spazio limitato di quella partita. Un’esibizione importante per la Catalogna ed i suoi stessi protagonisti. Poi scelsero entrambi strade calcistiche diverse, ma in fondo dalle idee comuni: Cruyff continuò a peregrinare tra gli Stati Uniti e poi il suo ritorno in Olanda tra l’Ajax ed addirittura il Feyenoord, mentre lo stesso Caszely sarebbe poi ritornato in Cile. Anche se Caszely colse l’immensa soddisfazione di battere proprio il Barca in un sentitissimo derbi barcelones sul terreno di casa. Era la temporada del 1975/76 ed il cileno due volte infilò la porta del Barca. Un pesante 3-0 rimasto nella storia, propiziato da un gol di testa del non altissimo Carlos, che poi rifinì la sua giornata con un gol dei suoi nel finale di partita. Ma anche questa è un’altra storia. Caszely approdò all’Espanyol, che lo pagò e che gli permetteva di evitare di tornare anzitempo nel suo paese e soprattutto sotto le grinfie di un Augusto Pinochet che lo aspettava al varco. Fu costretto per diverse settimane a rimanere fuori del rettangolo di gioco per problemi di tesseramento. Poi, una volta sceso in campo, non si fermò più ed i suoi gol diventarono una costante nella Liga spagnola del tempo. Su strade diverse Cruyff e Caszely perseguirono le loro idee, presentandosi entrambi come dei rivoluzionari affascinanti ed indiscutibili. Non si sarebbero incontrati nuovamente, ma il desiderio di giocare nella stessa squadra era rimasto incompiuto, ma allo stesso tempo era rimasto molto alto.


venerdì 3 gennaio 2020

Progreso-Barcelona Guayaquil, una sfida che manca dagli Anni Novanta

 
Jimmy Izquierdo del Barcelona
 Il 22 gennaio riparte una nuova edizione della Copa lIbertadores, quella del 2020 questa volta con finale unica al Maracanà di Rio de Janeiro. Si gioca il primo dei tre turni preliminari con: San Josè de Oruro-Guarani Asuncion, Carabobo-Universitario Lima e Progreso Montevideo-Barcelona Guayquil.

di Vincenzo Paliotto
 L’interessantissimo turno preliminare di Copa Libertadores dell’edizione del 2020 presenta immediatamente qualche confronto di spicco. Primo tra tutti la qualificazione alla fase successiva che si contenderanno gli uruguagi del Progreso e gli ecuadoregni del Barcelona Guayaquil. Peraltro le due squadre si affrontarono già in Libertadores nel 1990, al tempo dell’ultima partecipazione in merito dei giallorossi di Montevideo. Il Progreso, nato nel 1917 nel quartiere di La Teja, aveva vinto il suo unico titolo nazionale nel 1989, precedendo in classifica il Nacional Montevideo grazie anche ai 7 gol di Johnny Miqueiro, ed aveva guadagnato la partecipazione al massimo torneo continentale in compagnia del Defensor, in un’accoppiata inedita per l’Uruguay. Aveva poi ottenuto il primo posto nel girone, proprio dopo uno spareggio con il Defensor, e dopo aver avuto la meglio sul Pepeganga Margarita ed il Mineros Puerto Ordaiz, le avversarie non proprio irresistibili provenienti dal Venezuela. Negli ottavi, quindi, il Progreso avrebbe incrociato le ambizioni del Barcelona, che aveva vinto il campionato precedendo di mezzo punto(!), si proprio così, i cugini dell’Emelec. In Ecuador al tempo vigeva un cervellotico regolamento che assegnava punti in ogni partita, tenendo conto anche di una sorta di promedio punti nelle varie fasi del campionato. Ad ogni modo, il Barcelona si sarebbe poi qualificato addirittura come migliore terza nel proprio girone e dopo uno spareggio contro i boliviani dell’Oriente Petrolero. In squadra spiccavano i nomi argentini di Trobbiani ed Acosta tra gli altri.

 Negli ottavi di finale, comunque, quelli di Guayaquil misero quasi al sicuro al qualificazione nella partita di andata, imponendosi per 2-0, grazie ad una doppietta di Izquierdo, la cui prima segnatura venne giustamente etichettata come un bombazo, un tiro dalla lunga distanza che annichilì l’estremo difensore uruguagio. Poi nella partita di ritorno il Progreso provò a rendere la vita difficile a quel Barcelona, ma non andò oltre il 2-2, frutto dei gol di Machain e Leo Rampos per i padroni di casa e di Izquierdo e Bravo per gli ecuadoregni. La corsa del Barcelona si spinse poi fino alla finale, la prima della sua storia, che la squadra campione dell’Ecuador perse contro l’Olimpia Asuncion.